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Sant'Antioco

Museo Ferruccio Barreca tra trofet e necropoli

L'isola di Sant'Antioco, nella quale si trova la cittadina omonima, è la maggiore delle isole sarde e con i suoi 109 km² è la quarta d'Italia per estensione. E' collegata all'isola madre grazie ad un istmo artificiale e ad un ponte aperto nei primi anni ottanta. Il territorio dell'isola è ripartito tra il comune di Sant'Antioco, il più popoloso (che sorge sulle rovine dell'antica città fenicio-punica chiamata Sulky e poi dai romani chiamata Sulci) e quello di Calasetta secondo centro abitato dell'isola per numero di abitanti. L'antica Sulky era una delle maggiori città fenicie del Mediterraneo e anche dopo la conquista cartaginese e romana ebbe un ruolo di primo piano, favorito dalla felice posizione del suo porto, naturale sbocco per il commercio delle risorse minerarie dell’entroterra. Una testimonianza delle varie epoche e dominazioni straniere che hanno scritto la storia della cittadina di Sant’Antioco e dell’intera isola può essere ritrovata all’interno delle mura dell’importante Museo Archeologico “Ferruccio Barreca” dedicato all'importante archeologo specializzato nel periodo fenicio-punico che lavorava in Sardegna negli anni sessanta del secolo scorso. Qui troverete conservati gli innumerevoli reperti di età neolitica, punica e romana rinvenuti sull’isola, corredati da esemplari ricostruzioni di come dovevano apparire un tempo siti importanti della cittadina come il porto o il Tofet. Proprio il Trofet è il fiore all’occhiello dei siti archeologici di Sant'Antioco risalenti al periodo fenicio-punico. Si tratta di un singolare luogo di culto dedicato alla dea Tanit, nel quale venivano conservate, come in una sorta di cimitero, delle urne di terracotta contenenti resti cinerari di bambini morti prematuramente.
Situato sopra una collina si trova il trofet fenicio-punico di cui si sono trovate testimonianze che si protraggono per oltre sei secoli, dal VII al I secolo a.C. La visita prevede un percorso obbligato e suggestivo. In foto sono evidenti le copie di urne cinerarie trovate nel sito, solo quelle in basso sono originali. Le urne erano costituite per lo più da pentole da cucina mai utilizzate che venivano coperte da piatti di origine fenicia.

I Fenici e le tradizioni funerarie.

Lo sbarco dei fenici diffonde in Sardegna una pratica quasi estranea ai suoi abitanti: l’incinerazione. L’uso di bruciare i cadaveri per custodire poi le ceneri nei luoghi sacri, hanno origine ai riti dell’Oriente, sicuramente familiari ai colonizzatori venuti da Tiro o da Sidone. Per questi mercanti viaggiatori, la morte aveva il volto di Mot, un essere minaccioso e generatore di caos. Neppure i nuovi arrivati, però, interrompono la continuità nei villaggi dei morti. I Fenici adottano spesso, per i loro trapassati, le stesse aree che hanno sepolto i sardi di secoli lontani. Come accade con le abitazioni, o con i magazzini, le nuove strutture si sovrappongono alle preesistenti. Non si conosce il rituale che sanciva il distacco del defunto dalla comunità.
Il tofet (un particolare tipo di necropoli-santuario dove gli abitanti dei centri fenici e punici del Mediterraneo occidentale deponevano i bambini nati già morti o defunti poco dopo la nascita) è ubicato all’estrema periferia dell’abitato, ai piedi di una roccia trachitica. Presenta un recinto quadrangolare di blocchi in trachite squadrati, di età punica.
Per i bambini, non ancora iniziati con la cerimonia dell’accettazione in società, il destino era il trofet. Le urne con le ceneri dei piccoli defunti erano spesso accompagnate da stele di pietra che sono esposte nel vicino museo. La necropoli punica (inizi V- fine III sec. a.C.) è ritenuta una delle più importanti del Mediterraneo.

Ma come si presentano le tombe puniche?

Le tombe puniche erano scavate e costruite nel morbido tufo delle alture, sono costituite da una camera sotterranea, semplice o doppia, spesso di dimensioni ragguardevoli, alle quali si accede percorrendo un corridoio a scalini a rampa obliqua, in profondità, fino a raggiungere la soglia del sepolcro, collocato in genere a circa due, tre metri dalla superficie.  Molto meno resta della necropoli romana sucessiva perchè impiantata proprio sopra quella punica sotteranea e oggetto di sepoltura di cristiani.
Museo Ferruccio Barreca. Tra le forme propriamente fenicie vi sono brocche, pignatte, grandi vasi a larga imboccatura, unitamente a manufatti di tradizione indigena usati prevalentemente come contenitori di ceneri, mentre la chiusura delle urne è di norma fenicia, costituita da un piatto, una coppa, una lucerna.

Il sacrificio dei fanciulli, la storia.

 Secondo la versione più attendibile, il trofet era un santuario a cielo aperto dedicato al dio Baal Hammon e alla dea Tinnit, racchiuso in un recinto in muratura, nel quale erano posti sul rogo e sepolti con riti particolari i bambini nati morti o deceduti prima del compimento dei due anni di età. Tutte le pratiche svolte da parte dei loro genitori nell’area del tofet erano tese alla concessione da parte degli dei di una nuova nascita. Il rogo avveniva all’interno dell’area sacra, ma non sembra vi fossero luoghi privilegiati o bracieri specificamente destinati allo scopo: sul terreno veniva sistemata una catasta di legna e su di questa veniva deposto il corpo del bambino. Una volta acceso il fuoco si attendeva che le ossa principali fossero calcinate e quindi si estinguevano le fiamme con acqua, per evitare che i resti venissero totalmente distrutti. I poveri resti si deponevano all’interno di un recipiente fatto di terracotta, in genere una pentola da cucina nuova. Se la richiesta veniva esaudita, se cioè un nuovo bambino veniva ad allietare la famiglia, i genitori erigevano nel luogo sacro una stele in pietra (usanza Cartaginese) a ricordo della grazia ricevuta. Nello strato più profondo, e dunque più antico dei tofet di Cartagine e di Sulky, solitamente le urne contenenti le ossa combuste dei bambini erano deposte in fosse, talvolta foderate di ciotoli di spiaggia e ricoperte da una o più lastre di pietra. Questa sistemazione delle urne ricorda senza dubbio quella utilizzata in alcuni casi per le tombe a incinerazione di età fenicia, riservate agli adulti, note anche come «tombe a cista litica», in uso in alcune necropoli fenicie di Occidente, ad esempio quelle di San Giorgio di Portoscuso e di Bitia presso Domusdemaria in Sardegna, e quella di Mozia nei pressi di Marsala, in Sicilia.  In epoca arcaica erano usati anche contenitori diversi dalle pentole, tra i quali i crateri, le pissidi o le brocche, che nella vita quotidiana avevano anche altre funzioni. A partire dal VI secolo a.C., a seconda del santuario, vennero impiegate sempre le stesse forme: a Sulky e a Monte Sirai le pentole da cucina, a Tharros e a Mozia le brocche con collo cordonato per l’acqua, a Cartagine le anfore senza collo, a Karal forme diverse tra di loro. All’interno delle urne spesso vengono rinvenuti alcuni amuleti che nelle intenzioni dei loro genitori avrebbero dovuto proteggere i bambini dalle malattie più diverse, dai guai o dal malocchio. Gli amuleti venivano indossati e generalmente appesi al collo dei bambini. Si tratta tra l’altro di maschere sileniche, divinità barbute del pantheon fenicio, che non compaiono nelle tombe degli individui adulti. Non mancano le maschere apotropaiche in miniatura e gli amuleti di altre tipologie, soprattutto egittizzanti. In ogni caso ogni tipo di amuleto proteggeva da un male differente. Talvolta attorno alle urne, e comunque sempre all’esterno del vaso contenitore delle ossa combuste, sono stati rinvenuti piccoli recipienti che riproducono in modo miniaturistico le forme rituali e di accompagnamento che in genere erano associate ai defunti adulti. Si tratta di quelle forme, tra le quali gli attingitoi, i piatti, le coppe, le lucerne, le brocche con orlo espanso, le anfore e le pentole, che fanno parte del repertorio in uso nelle necropoli di età fenicia e punica.
Maschere, idoli, gioielli, amuleti, vasi, erano il corredo di ogni trapassato adulto. Le collane venivano poste sul defunto, probabilmente all’altezza del petto al momento della deposizione. Con i loro vaghi (cioè le perle componenti il monile) spesso decorati con tanti piccoli occhi, e con i pendenti figurati, avevano una funzione apotropaica, cioè protettiva per il defunto che doveva intraprendere il cammino dalla tomba all’aldilà, rafforzando il compito protettivo svolto da amuleti e maschere.
Questo mosaico romano di stile nord-africano fu rinvenuto nel centro storico di Sant'Antioico ed è datato al II-III secolo d. C. Sono raffigurate due pantere che si abbeverano da un cratere usato per miscelare il vino. Da questo cratere cresce un vite. Questa raffigurazione rimanda a Bacco (Dionisos), dio del vino e delle feste.
Urne rinvenute in una necropoli romana a Sant'Antioco datate al II-IV secolo d.C.
Bruciaprofumi e maschera di Sileno provenienti da un contesto funerario.
Oltre alle maschere sono state rinvenute protomi di terracotta, oggetti votivi che venivano collocati nelle tombe oppure presso i santuari come i tofet, accanto alle urne dei bimbi incinerati. Le protomi (nell'arte antica, elemento decorativo costituito dalla testa, talora anche con parte del busto, di una figura umana o animalesca o fantastica) possono essere sia maschili che femminili. Quella di Sant’Antioco, rinvenuta nel trofet, è femminile e rappresenta il volto di una divinità protettrice con un’acconciatura che ricorda quella delle divinità femminili egizie. Aveva il compito di proteggere il defunto dentro la tomba e durante il viaggio dell’anima verso l’aldilà.
Il museo Francesco Barreca possiede una vasta collezione di stele che erano doni votivi a favore degli dei.. Queste provengono dall'area del tofet ed alcune di esse recano iscrizioni in fenicio e punico e contengono una frase di ringraziamento. Le stele sono incise con raffigurazioni di uomini e donne, sacerdoti e sacerdotesse, con elementi architettonici come colonne e frontoni di templi.
Bronzetto nuragico di guerriero con arco. I bronzetti appartengono a un periodo avanzato della civiltà post-nuragica, in cui i nuraghi vengono riutilizzati come luogo di culto.
Uno dei due leoni trovati durante scavi a Sant'Antioco. Presumibilmente erano posti ai lati di una scala d'accesso a un tempio.
La divinità raffigurata è spesso femminile, ed è rappresentata con le mani che posano sul seno, come simbolo di fertilità. Si pensa che raffiguri la dea Astarte o Tanit, la divinità fenicio-punica della fertilità. Infatti il tofet potrebbe essere stato dedicato a Astarte e a Baal.

  • Il museo del Monte Arci  dedicato ai suoi minerali e alle sue rocce, testimonianza di una storia geologica antica e complessa
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